UN ALTRO “PICCOLO-GRANDE” SEME E’ CRESCIUTO: MARINO CAROTTI
E’ con grande piacere che ho acconsentito a scrivere la presentazione per questo primo lavoro discografico di Marino Carotti, “Galantòmo fu mio padre!”, frutto della sua ricerca sul campo, effettuata principalmente nelle provincie di Ancona a Macerata dal 1993 al 2000. Il piacere poi è stato triplo, primo, perché il disco (che ha avuto una lunga, tenace ed accorta gestazione di diversi anni) è meritevole di attenzione, per la sua accuratezza, eleganza e piacevolezza d’ascolto; secondo, perché Marino Carotti, ha fatto parte del Gruppo di Ricerca e Canto Popolare La Macina, dal 1990 al 1993, contribuendo, tra l’altro in modo determinante (arrangiandolo magistralmente) alla pubblicazione di uno dei suoi dischi più significativi, “Angelo che me l’hai ferito ‘l core…”[1]; terzo, perché Marino ha voluto tra i tanti ospiti straordinari del suo cd, proprio tre componenti de La Macina, oltre che il sottoscritto (fondatore, “voce” e anima del gruppo dal 1968), gli altri due componenti “storici”, Piergiorgio Parasecoli, con la sua potente fisarmonica “popolare” e Giuseppe Ospici, prima grande, calda ed intensa voce, di questo quasi cinquantenario gruppo folk marchigiano. Io ho raccolto con gioia, e grande piacere l’invito di Marino, come del resto (visto i bei risultati) anche gli altri due ex componenti del primo collettivo de La Macina, riformando, grazie a lui, quasi idealmente lo spirito, l’atmosfera, il sapore di quel nostro importante passato in comune.
Come componente del gruppo La Macina, Marino, praticamente si è avvicinato alla musica popolare grazie all’esperienza effettuata nei suoi quattro, intensi anni di attività con il gruppo, ed una volta uscitone ha messo a frutto tutto quello che aveva assorbito ed incominciato ad amare delle nostre comuni radici popolari. Ha capito che l’importanza e la forza del Gruppo è stata la sua costante ed ininterrotta ricerca sul campo, il rapporto stretto e continuato con gli informatori, il rispetto e l’amore per la nostra comune tradizione e per i suoi preziosi testimoni; quindi capita a fondo la “lezione”, ha continuato da solo la ricerca, si è creato un suo repertorio, riproponendolo con merito in questo suo bel cd.
Infatti, non mi stancherò mai di affermare, che chiunque intenda fare musica popolare, prima di tutto deve fare ricerca sul campo, ricercare tra la propria gente e non su i libri, su i dischi, sulle idee e sul repertorio degli altri, questo dovrebbe essere una priorità indiscutibile, poi ognuno nella riproposta, potrà essere libero di seguire la strada che più gli aggrada, secondo il suo gusto, la sua preparazione, la sua sensibilità, il suo estro. E Marino ha fatto tutto questo, ha ricercato, scovato, registrato i suoi informatori , o come sono stati magistralmente definiti, “alberi di canto”. [2] Ma Marino ha fatto anche di più, ha chiuso il suo cd, facendoci ascoltare i frammenti dei canti e soprattutto la voce di questi interpreti popolari, impreziosendo e qualificando ulteriormente il suo già meritevole ed interessante lavoro. A questo proposito riporto un frammento tratto dalla presentazione di Roberto Leydi al disco de La Macina, “Je se vedea le porte dell’affanno…”, dove trattando della “vocazione locale” del gruppo marchigiano, analizza così la seconda delle tre caratteristiche del suo lavoro: «[…] inglobare nel proprio manifestarsi, rispettandoli, cantori e musicisti della tradizione. Porsi, cioè, a confronto con quanti alla tradizione appartengono e la possiedono. E ciò a differenza di altri gruppi che, anche quando citano la fonte delle loro esecuzioni, per attestarne l’ “autenticità” non ci consentono mai di sentire il suono o la voce di questi testimoni resi muti […]».[3]Scelta, questa di Marino, perfettamente in sintonia con Leydi, perché come lui auspicava, dà la voce a questi suoi non più “testimoni muti”, rispettandoli a sua volta, e simbolicamente ringraziandoli, per averlo arricchito (e a sua volta arricchito noi) della loro memoria e del loro prezioso bagaglio di ricordi e di tradizioni.
Quindici sono le tracce di questa raccolta di tradizioni della cultura orale marchigiana (a parte due frammenti uno abruzzese ed uno lombardo, facenti parte del bagaglio, rispettivamente di due sorelle jesine che hanno vissuto a Penne (Pe) per diciotto anni e l’altro dell’informatrice di Vallemontagnana di Fabriano che l’ha imparato, come scrive Marino in questo suo accurato libretto, “da una milanese che ogni estate veniva a trovare i suoi parenti a Vallemontagnana di Fabriano”). Perché la tradizione si trasmetteva così oralmente, ascoltando, captando e poi ritrasmettendo ad altri, sempre per via orale, quello che uno aveva imparato, rivitalizzandolo ogni volta, ad ogni passaggio di testimone, divulgando così, con varianti, aggiunte, contaminazioni, tagli, tutto quel bagaglio di tradizioni, che è arrivato a noi, come per miracolo, attraverso un’infinità di anni e di secoli. A questo proposito, giusto per spiegare questo grande “miracolo” della memoria, basta citare l’esempio della ballata arcaica di origine castigliana, qui riprodotta, de Il marito giustiziere (Nigra 30). Questa ballata, come ha appurato con i suoi studi e le sue ricerche nel centro della penisola iberica, Don Ramòn Menéndez Pidal, nel suo monumentale Romancero ispanico [4], proviene appunto dalla Spagna, dalla metà del Cinquecento, da dove si è propagata, arrivando attraverso il Piemonte anche in Italia (dove il testo si è arricchito delle “maledizioni”), giungendo, sempre per via orale, abbastanza integra, sino all’informatrice di Cerreto d’Esi!
Il cd ci presenta uno spaccato di vari generi che vanno dal classico stornello della “rondinella” che chiude ed apre questo lavoro, a varie ballate, tra le quali una bella versione de Il marito giustiziere (Nigra 30), canti satirici, d’amore, alla “bufarara”, varie divertenti tiritere, filastrocche infantili, un canto di cantastorie All’età di quindici anni…(letteralmente “stravolto” ed impreziosito da un accompagnamento veramente geniale, straniante e magico del sax di Fefo Catani), due stupendi frammenti di passioni popolari, Maria per la via…, un collage di ninne-nanne, e come gran finale l’emozione delle voci degli informatori. Il tutto arrangiato da Marino e magistralmente accompagnato dalla sua formidabile chitarra. Il pregio del disco è la riproposta non a ricalco degli originali, ma reinterpretati e fatti “rivivere” secondo il gusto, vintage, sempre elegante, discreto, mai ridondante dell’esecutore, assecondato dai tanti ospiti che hanno ulteriormente arricchito questo “piccolo-grande” gioiello di musica popolare marchigiana.
Tutti meritano di essere citati, perché hanno assecondato ed impreziosito il bel lavoro di Marino con grande amore ed altrettanto entusiasmo: i tamburelli di Roberto Belelli, l’armonica di Leonardo Bolognini, le due Corali, “Brunella Maggiori” e “Santa Lucia” dirette rispettivamente dai Maestri, Stefano Contadini e Mauro Gubbiotti, il Coro degli Alunni della Scuola Media coordinati dalla Prof. Claudia Surace, il sax ed il flauto di Fefo Catani, la voce di Giuseppe Ospici, lafisarmonica di Piergiorgio Parasecoli, la voce di Gastone Pietrucci, la voce di Antonella Zallocco.
Marino è un interprete sicuro, appassionato, ma quello che mi ha sempre colpito di lui è la forza della sua chitarra, veramente straordinaria, accattivante, a tratti travolgente. Si sente una grande maestria, una grande classe, dove tutto sembra facile e normale nelle sue esecuzioni, mentre è invece sorretto da un grande tocco, una grande bravura ed una grande, invidiabile tecnica.
Il cd è corredato dall’indispensabile libretto curato dallo stesso Marino Carotti, ed è impreziosito da una elegante, bella, soffusa ed essenziale copertina, firmata dal figlio Fabrizio Carotti, un artista giovane, già affermato.[5]
Di fronte all’attuale, misero, stucchevole, raffazzonato, pressappochista, sconfortante panorama della maggior parte dei gruppi folk marchigiani, si rimane veramente desolati. Si avverte chiaramente che non c’è rispetto, ma soprattutto, non c’è una profonda conoscenza del materiale tradizionale che questi gruppi senza spessore, senza memoria (e quindi senza anima) pretendono di riproporre. Certamente troviamo dei buoni, anzi in certi casi ottimi giovani suonatori, specialmente di organetto , ma il folclore marchigiano non può essere limitato soltanto al saltarello (anche se il ballo cosiddetto “folk”, va di gran moda, dietro l’esempio eclatante ed ormai addirittura insopportabile della famigerata, pubblicizzata, super commercializzata e sfruttata “pizzica” pugliese) o agli stornelli licenziosi (per lo più, indecenti, pecorecci e decisamente volgari, per non parlare delle nuove composizioni pseudo-folkloristiche improponibili, squallide, irritanti , terribilmente kitsch ), ma ha contenuti, generi, atmosfere, situazioni, ben più profondi e di grande spessore. Il popolo si esprimeva e comunicava attraverso il canto , la musica, la danza tutta la sua voglia di vivere: quindi nel canto ed attraverso il canto, c’era la gioia, il dolore, la fatica, il sudore, le lacrime, la nostalgia, la speranza, le sconfitte e le vittorie, la superstizione, il rito, lo sberleffo, la licenziosità, la preghiera, la vita, la morte, e tutto questo non si può ridurre a macchietta di folclore, a banalizzare (ancora più dei famigerati, leziosi, stucchevoli e stereotipati gruppi folkloristici!) ed in certi casi ad offendere e ridicolizzare una grande tradizione, che merita prima di tutto di essere conosciuta a fondo e profondamente amata e rispettata.
Con Marino, per fortuna, si respira un’aria completamente diversa!
Presentando “Credenza popolare”, il primo cd de Lu trainanà (un giovane, interessante e soprattutto serio e preparato
Gruppo di ricerca e di riproposta delle tradizioni popolari della zona del maceratese e del fermano) concludevo, affermando con grande soddisfazione che «[…]il sottoscritto e La Macina non hanno seminato invano, perché questi ragazzi sono sicuramente il futuro, la nostra giusta e tanta auspicata continuazione!»[6].
Ora finalmente posso affermare, con certezza che grazie a Marino, un altro “piccolo-grande” seme è cresciuto, è diventato un’altra bella realtà: sono sempre più convinto che La Macina non ha quindi seminato e… macinato invano, tutt’altro!.
Grazie Marino.
Gastone Pietrucci, Jesi, 12 marzo 2016
[1] . La Macina, Angelo che me l’hai ferito ‘l core…, MCM-Records-050-W6, 1993.
[2] . termine usato da Franco Castelli, Emilio Jona, Alberto Lovatto, nell’introduzione alla nuova riedizione dei Canti popolari del Piemonte, di Costantino Nigra, Einaudi Editore, Torino, 2009, pag. LXII.
[3] . dalla presentazione di Roberto Leydi al cd de La Macina, Je se vedea le porte dell’affanno…, MCM-Records-050-W8, 1998, p.2.
[4] . Don Ramòn Menéndez Pidal, Romancero hispanico (2 voll., Madrid, 1953, I, pp. 361-363; II, p. 324 ss).
[5] . Fabrizio Carotti, artista digitale, che impiega le fotografie, che lui stesso inscena, come base per le proprie composizioni.
[6] . dalla presentazione di Gastone Pietrucci al cd de Lu Trainanà, Credenza popolare, cd autoprodotto, 2012, p.2.
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